


Caso vuole che l'abbia presieduta dal 2001 al 2004 anche un'altra nostra conoscenza, sì, proprio quel Paolo de Castro, uomo di Prodi, che in questi giorni pare non saper più chi è e da dove viene.
Bene, chiarito questo procediamo oltre...
Nomisma e gli OGM
Nomisma entra per la prima volta nella querelle OGM proprio nel 2004, quando, in un report sviluppato per Assalzoo, conclude sottolineando come la soia OGM-free italiana non basta nemmeno per sostenere le nostre filiere DOP, già oggi infatti i nostri prodotti di punta fanno largo uso di soia importata etichettata esplicitamente come "contenente OGM". Fine primo round.

I numeri Nomisma
Fatto salvo che per la soia vale il "nulla di nuovo sotto il sole", per il mais Nomisma sostiene invece che le cose stanno cambiando rapidamente. Per vari motivi (da noi liberamente riadattati e semplificati):
1) Le rese per ettaro di mais in Italia dal 1999 ad oggi non sono più aumentate, mentre aumenta il fabbisogno (anche a causa di usi "non-food").

3) I paesi grandi esportatori fanno da tempo largo uso di OGM e, visto il crescere della domanda mondiale, comparata anche con la nostra, potrebbero benissimo decidere di snobbare il nostro mercatino se gli creiamo troppi problemi (inutili, n.d.r.) in termini di standard di purezza "genetica" (in questo periodo particolarmente viene un brivido giù per la schiena a parlare di certe cose) e quant'altro.
4) Il farsi sempre più stringente delle normative sulle micotossine e il ciclico ripresentarsi di altre problematiche (siccità, diabrotica, etc), senza poter utilizzare innovazioni atte a contenerle efficacemente (che invece tutti gli altri possono e potranno utilizzare) ci metterà in una posizione di doppia debolezza:
- da un lato dovremmo destinare porzioni importanti della nostra produzione a scopi "poco nobili" in quanto, queste sul serio, risultano "contaminate" (costringendoci peraltro ad aumentare le importazioni e riducendo così il reddito dei nostri agricoltori);
- dall'altro a perdere potere contrattuale continuando a perseguire un mercato "nazionale" OGM-free, in un mondo che sta invece rapidamente muovendosi verso un uso importante di queste nuove tecnologie per rispondere a pressanti problemi di sostenibilità e redditività agricola. Il tutto con l'unico esito di diventare un mercato problematico e periferico che è costretto a far pagare molto caro ai suoi "consumatori" la scelta suicida di un sistema agricolo "bulgaro".

Questo era con parole nostre, eccovi invece quelle pari-pari di Nomisma:
I margini di manovra affinché l’Italia possa continuare a perseguire un’opzione non ogm diventeranno sempre più limitati, se si considera come il mais non gm disponibile sui mercati internazionali si potrebbe ridurre dagli oltre 43 mio. t. attuali ad un intervallo compreso tra 13 e 26 mio. t..
In secondo luogo è probabile che, diventando un bene più scarso, il mais non gm veda aumentare il suo prezzo ben oltre il 4% di differenziale attuale, con un aggravio dei costi di approvvigionamento a cascata sulla filiera.
Infine, con una domanda da parte dei Paesi emergenti che nei prossimi anni potrebbe crescere vertiginosamente, il mais sarà sempre di più una commodity strategica sui mercati globali. Il potere dei pochi Paesi esportatori è destinato ad aumentare: quali acquirenti privilegeranno, dati i volumi delle rispettive domande?

Come si suol dire: chi ha orecchie per intendere, intenda (chissà se a de Castro fischiano...)
3 commenti:
Secondo dati ISTAT le rese di mais in Italia sono ferme dal 1986
Mah, il grafico che abbiamo fatto dai dati FAO pare dica che gli incrementi seppur più ridotti ci siano stati fino al 1999. Per cui ciò che dice Nomisma non mi pare scorretto. Prova a vedere i dati anche tu (ci dovrebbero essere tutti i link).
Ciao
L’analisi di Nomisma propone questioni decisamente più interessanti rispetto ad altre che manifestano uno strano odore di muffa.
Ma veniamo al dunque. La prospettiva, in sostanza, è quella di un ulteriore impulso alla maiscoltura nazionale. Non sarà una breve fiammata, ma un trend in consolidamento per diversi anni a venire.
Provo a immaginarne l’andamento.
1. Le vituperate multinazionali americane aumenteranno i profitti vendendo sul nostro mercato gli ibridi che da trenta e passa anni sono i protagonisti (con merito, s’intende) della maiscoltura nazionale; alla faccia della difesa di una biodiversità che in effetti, dunque, non è mai stata un problema.
2. Grandi prospettive per i commercianti di fertilizzanti, soprattutto per quelli azotati, acquistati nell’est europeo a basso prezzo e rivenduti a prezzi folli al contadino nazionale. Giù sacchi di nitrati alla semina, vagonate di preziosa urea in copertura. Lascio immaginare, soprattutto nelle zone di terreno sciolto, la povera falda acquifera che si ritrova, piovuto dall’alto, un percolato così “sostanzioso”.
3. Nell’era “post atrazina” le cose sono migliorate; ci sono erbicidi più moderni, a minore impatto ambientale. Ma perché perdere tempo a studiare la migliore “tecnologia erbicida” in ogni specifico contesto? Si va giù con una formula generalizzata e così aziende produttrici e rivenditori vendono, mentre il contadino non deve star lì a scervellarsi. Quanto ai costi ed al reale impatto ambientale, che importa? (il prezzo finale in qualche modo ci sarà...)
4. Non parliamo, poi, delle zone in cui piralide e diabrotica imperversano! Lì, non si può fare a meno del trattamento insetticida, che tra l’altro può essere obbligatorio per legge. E giù tonnellate di principi attivi i quali, sebbene più evoluti rispetto ad anni fa, non possono portare benefici né per l’ambiente né per le tasche del contadino.
5. Per i commercianti di cereali e di granaglie in genere, apriti cielo! (in positivo, s’intende). Le tensioni sul mercato non faranno altro che occultare azioni speculative. Alla fine, il prezzo al consumatore della fettina (e di tante altre cose) aumenterà, mentre per il contadino il ricavo sul quintale di mais resterà stranamente costante…
Molti interessi trarranno giovamento da questa situazione. Ma non è il caso di andare oltre? (domanda retorica, s’intende). C’è ancora bisogno, dunque, di spiegare i vantaggi di tecnologie agricole più moderne?
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